Presentazione di "Oreste Casalini. Materia e luce" con interventi di Paolo Aita e Emanuele Trevi

10 giugno 2025 ore 18:00
Presentano Fabrizio Pizzuto, Alfredo Zelli, Maurizio Pierfranceschi
“L’arte è quel di più, non richiesto, necessario per non morire di sola materia”
  
Oreste Casalini se ne è andato portando con sé un desiderio: pubblicare un libro che raccogliesse molte delle sue opere, dei suoi pensieri e delle riflessioni di amici intellettuali a lui molto cari.
A cinque anni dalla sua scomparsa, la perseveranza di sua madre, donna specialissima, robusta e amorosa, Donna Elvira Bova, ha dato forma tangibile a quel desiderio. Si intitola Materia e Luce il volume a cura di Fabrizio Pizzuto che segue il percorso di Oreste Casalini dagli esordi negli anni Ottanta, quarant'anni di esercizio artistico ininterrotto e di lavoro fisico e intellettivo, di analisi e sintesi, in cui, scrive il critico, “tutto contribuisce a comporre, ad un’esigenza condivisa di
questa generazione: quella di ritornare a parlare senza fronzoli. Arte in rapporto con sé stessa e con la vita, non ridondante, non al servizio di essa. Arte che fugge per meglio conservarsi”.
Il volume presentato, prosegue Pizzuto, “si configura come un processo di restauro, un tentativo di dar voce a un progetto nato da un’idea dell’artista. Abbiamo seguito le indicazioni che ci aveva lasciato e, in parte, ciò che personalmente ricordavo dalle conversazioni avute con lui, in cui emergevano le sue intenzioni. Tuttavia, il percorso si è interrotto proprio dove tutto era ancora in bilico, in quella zona di sospensione in cui le opere e le idee stavano nascendo in modo non lineare, quasi casuale, fru4o di dialoghi e momenti di riflessione”.
Un viaggio nell’arte totale e immersivo, quello di Oreste Casalini, senza mai esitazioni di fronte al compito immane che la Natura gli aveva posato addosso, quello di compiere gesti e realizzare prodotti apparentemente senza regole, le opere d’arte, manufatti eccezionali preziosissimi e eppure non etichettabili. Un viaggio durato tutta la sua breve, troppo breve vita, in cui ha affrontato metodologie e temi diversissimi, complessi, la vita, la morte, il desiderio e l’attesa, mai
stanco, sempre lucido e potente. “Oreste avrebbe dovuto, con l’irruente irrazionalismo tipico degli artisti, protendere la forma di guasconeria propria della sua produzione, come fa tutta l’arte contemporanea, facendosi beffe di qualsiasi forma di protezione dell’opera, e facendo finta di ignorare la sua inevitabile e implicita sfacciataggine auto difensiva”, scrive Paolo Aita nel suo testo presente nella pubblicazione, che raccoglie anche molti versi poetici dell’artista, pensieri in scrittura e non in pittura, ma fulminanti come le sue tele, o le sue sculture.
E oggi, dopo anni, mi viene di nuovo voglia - una voglia trasformatasi in bisogno a causa della sua dolorosa assenza - di recitargli come una preghiera qualcosa di ciò che scrissi per lui in occasione della sua antologica Oreste Casalini. Una moltitudine. Opere dal 1998 al 2018, a mia curatela, aperta presso l’Istituto Portoghese di Sant’Antonio in Roma nel 2018: “Allora siediti accanto a me Oreste, e parliamo del lavoro quotidiano dell’artista in nome del quale, come Sironi, "sei pronto a rinunciare a tutti i facili effetti e a ogni superficiale successo pur di affrontare il travaglio e la fatica necessari” (Ernst Gombrich) e grazie al quale, anche tu, modelli la figura umana in unità compositiva sintetica e non descrittiva, arcaica e moderna. Così come i volti che dipingi l’uno accanto all’altro, spesso delimitati da contorni scuri, in spazi esigui come finestre concluse, a volte colombari di contenimento. Raccontami di come costringi figure e volti a mostrarsi scolpiti da gravi linee di contorno, sciabolati dal bianco di biacca, nello spazio angusto che li contiene appena, smisurati e mossi, fuori squadro. Di come vuoi dare il massimo del movimento, di quanto aggiusti le proporzioni, cosicché le figure e i volti raggiungano la tridimensionalità assente, con le teste d’uovo di manichino metafisico, le membra da scultura lignea trecentesca, ingraziandosi una figurazione perduta nell’essenzialità del tratto. È su una prospettiva debole che moduli la composizione, i pochissimi elementi l’uno accanto all’altro, allusioni a particolari non indagati, come nelle Composizioni degli ultimi quindici anni di pitture e disegni di Sironi, in cui l’artista trovò la nuova maniera pittorica più intima e privata, pur sapendo come mantenere altissime le qualità estetiche e la compiutezza dei lavori, preziosi piccoli brani di mondo in cui il trionfalismo era finito per sempre”.
Oreste amò molto questa sua grande personale in cui insieme riuscimmo a esporre la sua qualità segnica asciutta, la frammentazione e la provvisorietà dell’immagine supportata però dalla solidità costruttiva, dalla persistenza della materia e dai pigmenti naturali e accesi. Un disegno non nitido, ma dal segno non incerto, capace di costruire la forma, coerente nell’intero corpo di lavori, eterogenei per tecnica, dimensioni e appartenenza cronologica, ma serratamente uniti nel coerente ‘edificio interiore’ dell’artista. In questo modo, i diversi cicli su carta, su tela e su tavola, le sculture, i gessi e le ceramiche, tracciano una linea molteplice ma non spezzata, anzi fortemente modulata sul nucleo della necessità della pratica artistica come esercizio della mente, autenticamente compreso, vissuto, sperimentato. Un codice che emerge da un lavoro solitario, metodologicamente consapevole di far parte dell’alveo iconografico e stilistico della
tradizione pittorica italiana, eppure capace di mantenersi al di fuori di mode e provocazioni effimere, in uno stato di eccezione in cui la contraddittorietà e la frammentazione pesano correttamente sulla bellezza e la classicità, le reinventano e le rendono contemporanee.
E poi la produzione di idee, la volontà di esprimersi e comunicare idee sulle questioni fondanti dell’arte, dalla preistoria ad oggi, come si dovesse ogni volta scrivere un saggio, una verifica dell’autonomia espressiva e dell'integrità dell’opera, religione laica cui ha sempre convintamente aderito. “La posizione di Oreste nei dibattiti astratti era semplice ma profonda, e ancora oggi non ne trovo di più intelligenti. Io non sono un filosofo, diceva. Io sono un pittore. Un pittore
dipinge. Non considera il passato come farebbe uno storico dell’arte o un professore di estetica. […]. Fare l’arte non è un’operazione intellettuale, un calcolo estetico riproducibile in astratto, come vorrebbe qualche noioso e pedante modaiolo, ma qualcosa che riguarda profondamente l’essere vivi, e l’essere mortali, come il respiro o la digestione. L’arte è la fatica di stare in piedi, l’odore di trementina, la forza della mente che diventa la forza delle mani, e viceversa. Ed era proprio questa consapevolezza la radice della prodigiosa, inesauribile fertilità di Oreste”, restituisce Emanuele Trevi nel suo testo in volume.
Paola Pallotta, aprile 2025
 

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